di Daniele Bigucci
“Non era un bacio alla francese, eh” scherza Rosaria Iardino (52 anni), presidente della fondazione The Bridge e componente del Comitato etico dell’Istituto Superiore di Sanità. Sieropositiva da quando aveva 17 anni, è in prima linea contro lo stigma e le discriminazioni verso le persone sieropositive e nella lotta contro il virus HIV. In occasione della Giornata mondiale contro l’AIDS del 1991, rispose ad alcune fake news dell’epoca per dimostrare come un semplice bacio non potesse trasmettere il virus. All’epoca, il suo bacio con l’immunologo Fernando Aiuti fece il giro del mondo. Oggi, trent’anni dopo, facciamo il punto della situazione.

Ciao, Rosaria! Quest’anno il Ministero della Salute ha snobbato l’appuntamento del primo dicembre, che poi è l’unico momento dell’anno in cui si parla di HIV e di AIDS.
Il Ministero della Salute quest’anno non ha sicuramente nella sua agenda politica il tema dell’HIV e delle malattie sessualmente trasmissibili. Non è che la Lorenzin avesse fatto molto meglio. Diciamo che gli ultimi ministri hanno messo poca attenzione a questo tema e, soprattutto, hanno dimostrato cecità economica perché fare prevenzione significa meno persone con HIV, quindi meno costo per il servizio sanitario nazionale. Abbiamo preferito lasciare infettare le persone, pagare di più, rovinare la vita emozionale alle persone, invece di provare ad informarle correttamente. Quest’anno, fra le nuove infezioni che arrivano all’attenzione delle Malattie Infettive, troviamo persone già compromesse da un punto di vista clinico, cioè persone che sono arrivate tardi alla diagnosi, e troviamo tanti giovani: questo è un campanello d’allarme. Trovare sedicenni, diciassettenni che hanno contratto il virus dell’ HIV vuol dire che questo paese non sta investendo, da questo punto di vista, sui giovani.
A proposito di giovani, perché non si riesce a raggiungere questo pubblico?
Abbiamo fatto tantissimo lavoro delle scuole fino a metà anni 2000, dopodiché solo le associazioni di volontariato sono andate a portare questo tema nelle aule. Noi abbiamo una generazione che è stata bombardata, anche impanicata, dall’HIV. Oggi i giovani non lo percepiscono come un rischio e sono convinti che basti il coito interrotto per non avere dei bambini -cosa sbagliata- né tantomeno le malattie sessualmente trasmissibili. Sento frasi come “l’interruzione dell’orgasmo previene l’HIV” oppure “Tanto è una roba che riguarda l’Africa”: non è che sono superficiali, hanno delle informazioni scorrette.
Quindi oggi sono principalmente le associazioni a farsi carico di sensibilizzare la società.
Questo Paese ha sempre avuto problemi a parlare di sesso coi giovani perché gli adulti hanno un problema a parlare di sesso. Quindi, a parte gli sforzi di qualche docente illuminato, questo paese non ha mai brillato per dare ai giovani degli strumenti liberi per esprimere la propria sessualità, indipendentemente dall’HIV.

Ci sono diverse associazioni Lgbt che si occupano di questo tema, c’è forse un disinteresse da parte della “comunità eterosessuale”?
Storicamente la comunità Lgbt è una comunità molto più attiva. D’altra parte, non abbiamo una “comunità degli eterosessuali”: noi avevamo bisogno di creare una comunità, gli etero, no. È anche vero che l’HIV ha interessato moltissimo la comunità Lgbt e le persone che scambiavano siringhe. Negli anni ’80/’90, il governo, con un atteggiamento un po’ bigotto, non ha mai voluto dire apertamente nella comunità eterosessuale che la monogamia è un fattore valoriale ma non un comportamento attuato. La percezione che siano tutti i fedeli, santi e buoni ha fatto sì che oggi abbiamo un tasso di persone con HIV eterosessuali molto elevato.
Inoltre, il mondo etero non è sollecitato: nessuno gli dice “tu comunque il test fallo e nessuno dirà niente a nessuno” Quindi non si sentono a rischio: lo sentono solo quando hanno evidenza sul pene o sulla vagina, magari perché hanno contratto l’herpes. L’HIV, però, non si manifesta fino al momento in cui non è compromesso il tuo stato clinico, quindi nessuno ci pensa.
Tuttavia non possiamo sottovalutare il tasso di infezioni nella comunità omosessuale.
Il motivo per cui si hanno numeri maggiori nella comunità omo sta nel fatto che la comunità omosessuale maschile è quella che non ha problemi ad andare nei centri di cura delle malattie sessualmente trasmissibili mentre l’etero che prende -magari- la sifilide va dal medico di famiglia, si fa prescrivere la terapia e quello non viene segnalato. Quanti medici di medicina generale fanno la segnalazione per le malattie sessualmente trasmissibili che hanno contratto i loro utenti?
Il tuo nome è associato ad un episodio del dicembre 1991: il bacio con l’immunologo Fernando Aiuti fece il giro del mondo. Cosa significava essere sieropositivi in quegli anni?
In quegli anni avevi le onoranze funebri che si rifiutavano di vestire i morti di AIDS, avevi la custode di uno stabile che, quando veniva a sapere che ci abitava una persona con HIV, puliva il corrimano con la candeggina; non si accettavano i bambini sieropositivi nelle piscine; c’erano datori di lavoro e, soprattutto, colleghi che facevano mobbing. Non scorderò mai un operaio della catena di montaggio della Fiat discriminato dai propri colleghi: l’operaio successivo non voleva toccare il pezzo aveva appena toccato. Quello era il clima di quegli anni: la peste nera, la punizione di Dio. Le persone con HIV venivano trattate come reietti.
Iniziarono a girare alcune notizie che sostenevano che esisteva il rischio di trasmettere il virus attraverso un bacio.
Quelle informazioni dicevano che se nel cavo orale è presente del sangue, quello è infettivo. Ricordiamoci che molti pazienti sanguinavano: non c’erano le cure e non è come oggi che se fai il trattamento la tua carica virale è undetectable [non rilevabile, ndr.] e quindi non puoi teoricamente infettare. Da qui sono nati tutti quei titoloni “Col bacio si trasmette l’HIV” ed è da lì che poi è nata l’idea.

Raccontami com’è andata.
Eravamo ad un convegno a Cagliari. Fernando [Aiuti, ndr.] mi disse “Senti, dobbiamo fare qualcosa”. C’era un giornalista del Corriere della Sera: ci organizziamo con lui, uscimmo fuori dal convegno e ci demmo quel bacio. Un bacio, uno scatto e da lì è partito tutto.
E da lì è nata la prima pagina del Corriere della Sera del 2 dicembre 1991.
Ho dei pezzi di giornale del Giappone, della Russia. Questa fotografia ha fatto davvero il giro del mondo per togliere uno stigma che proprio non aveva senso. Il bacio vuol dire: tutto ciò che c’è tra labbra-labbra non passa, se nuoto nella stessa piscina non ti arriva, se mi dai le posate di metallo non ti infetto. Dietro c’era il messaggio più ampio di non discriminare le persone con HIV. Quel bacio a costo zero ha avuto un impatto di milioni di euro in termini di pubblicità e di informazione.
Oggi le cose sono molto cambiate.
Per quanto riguarda lo stigma, non tantissimo. Grazie ai farmaci, la vita delle persone è cambiata completamente per cui c’è la percezione che sia un problema che non le riguarda più. Invece, rilevo ancora la paura di dichiararsi sieropositivo, anche negli ambienti familiari. Non tutti dicono di avere l’HIV ai propri genitori, alle proprie sorelle. Non tutti dicono di avere l’HIV nel proprio posto di lavoro. C’è la paura che lo possano venire a sapere, la paura di essere discriminati e, in molti casi, questa cosa avviene.
Lo stigma persiste.
Persiste lo stigma nei confronti delle persone con HIV, persiste lo stigma nei confronti del test HIV. Io vorrei che divenisse un test da ricetta del medico di famiglia.
Assieme alla glicemia, insomma.
Esatto, perché oggi c’è la terapia. Avremmo così due risultati: curare la persona -oggi l’aspettativa di vita delle persone con HIV è pari alle persone senza HIV, se prendono i farmaci- e ridurre la diffusione dell’epidemia. Invece ci sono tante tante persone che pensiamo siano affette da HIV che, non sapendolo, continuano ad infettare.
Perché, ricordiamolo, una persona in terapia efficace non trasmette il virus HIV.
È estremamente improbabile.
Abbiamo parlato di giovani. Che messaggio daresti alle nuove generazioni che non hanno vissuto sulla loro pelle l’epidemia AIDS degli anni ‘80/’90?
Il mio messaggio è sempre lo stesso da 30 anni: i giovani hanno tutto il diritto, tutto il dovere di avere una sessualità bella, quindi di non rinunciare alla sessualità ma di proteggersi. Il profilattico è l’unico strumento efficace, sicuro, che previene non solo l’HIV ma anche le tante malattie sessualmente trasmissibili.
Mia figlia ha 18 anni. Ogni viaggio che fa, le metto sempre dentro dei profilattici nello zaino senza metterla in imbarazzo. Il regalo più bello che un genitore può fare è mettere un profilattico per togliere al giovane l’imbarazzo di chiederti dei soldi.
Ai giovani dico: se non avete i soldi, rivolgetevi ad un’associazione di volontariato locale. Basta chiedere a noi di Fondazione The Bridge, o alle associazioni di lotta all’AIDS che hanno sedi nel territorio, e chiedere 10 profilattici: vi verranno regalati. Perché noi non siamo come lo Stato, noi investiamo in prevenzione. Ad uno Stato, un profilattico costerebbe pochi centesimi mentre un paziente con HIV costa 11.000 euro l’anno.
Il profilattico è un amico, non un nemico. E poi, se pensate di aver avuto dei rapporti a rischio, soprattutto se siete giovani, venite da noi che vi diciamo come fare il test.